Screenshot 2025 02 14 at 15 33 56 martiri della legalità Cerca con GoogleEra il 1980, quando, tra Magistrati e Forze di Polizia, veniva costituito il pool antimafia, che mirava a evitare la dispersione delle informazioni tra i singoli Giudici impegnati in indagini e processi sulla criminalità organizzata. La finalità era quella di un coordinamento quanto più armonico ed efficace possibile, nell’intento di fare fronte comune nella lotta titanica contro un nemico che era ed è gigantesco e ramificato ovunque e dappertutto. In quella “squadra”, emersero immediatamente su tutti i talenti tenaci di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, perché ambedue dotati di “grande intelligenza, grandissima memoria e grande capacità di lavoro”, come affermato da un loro diretto estimatore, il collega Giuseppe Di Lello.

Nel 1982 venne configurato lo specifico reato di “associazione mafiosa” (art. 416 bis Cod. pen.), che lo stesso team avrebbe utilizzato per ampliare le investigazioni sul fronte bancario – come suggerito dalle pioneristiche intuizioni del generale Carlo Alberto dalla Chiesa – e per cominciare a tracciare movimenti degli ingenti capitali riciclati, specie nelle aree del Settentrione. Nel 1988 Borsellino lamentò la mancata nomina del collega Falcone alla guida del pool antimafia, affinché potesse venir garantita l’auspicata e necessaria continuità dell’assai delicato ufficio, al venir meno del titolare, paventando, altrimenti, il disfacimento del pool medesimo. Per le dichiarazioni marcatamente critiche rese al riguardo, rischiò una sanzione disciplinare dal CSM (Consiglio Superiore della Magistratura), ma l’allora presidente Francesco Cossiga, che di tale organismo era a Capo, lo difese.

Nel 1991 Borsellino – già Procuratore a Marsala – chiese di tornare a Palermo, seppure in veste di Procuratore aggiunto. La Mafia lo aveva condannato a morte sin dal settembre di quell’anno, ma l’interessato, pur perfettamente consapevole del pericolo ormai certo, non esitò mai ad adempiere il dovere al quale aveva votato la sua esistenza, per l’affermazione del Diritto, in nome della Giustizia. Si trattava di un dovere vissuto sempre con una dedizione quasi missionaria. Dopo l’assassinio del “fratello” Giovanni Falcone, avvenuto con il massacro dinamitardo del 23 maggio 1992, sull’autostrada A29, all’altezza di Capaci, dichiarò: “ricordo ciò che mi disse Ninni Cassarà, allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Giuseppe Montana, alla fine del luglio del 1985”. Egli infatti gli disse: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”. Nell’ultima sua intervista, Borsellino parlò degli stretti legami tra la Mafia e l’ambiente industriale milanese e del Nord Italia in genere.

Domenica 19 luglio1992, una carica di tritolo – posta sotto il palazzo della casa materna, a via Mariano D’Amelio 21 – lo uccise, insieme con 5 agenti della sua scorta. Cinque giorni dopo, ai funerali religiosi, Antonino Caponnetto, l’anziano magistrato che aveva guidato l’ufficio suo e di Falcone, dichiarò: “Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi”.

“La lotta alla Mafia – il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata – non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà, che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità […] Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa Mafia svanirà come un incubo. L’importante è che il coraggio prenda il sopravvento, chiariva e caldeggiava lo stesso Borsellino.