Soprattutto a partire dal XIV secolo la pena di morte e le mutilazioni gravi divennero le misure più comuni e i giudici le imponevano ogniqualvolta si persuadevano che l’imputato costituisse una minaccia per la società. La pena capitale acquisì un nuovo significato; essa non era più lo strumento estremo destinato ai reati più gravi, ma un mezzo per liberarsi di individui pericolosi e nemmeno ci si curava troppo di verificare la colpevolezza (o l’innocenza) di un sospettato. Anche le esecuzioni divennero ancora più brutali e spietate: in Francia molti sventurati malviventi, o presunti tali, spirarono fra atroci sofferenze, immersi in calderoni pieni di olio o di acqua bollente. Sorte non meno terribile toccava ai condannati a morte per affogamento, che venivano gettati nelle acque del mare o di un fiume, dopo essere stati rinchiusi in un sacco insieme a un cane, un gatto o un gallo.
Modalità punitive tanto efferate servivano alle autorità per convogliare l’odio delle masse contro i singoli fuorilegge e deviare così da sé le responsabilità per la difficile situazione economica: le esecuzioni pubbliche, talora di decine di persone alla volta, erano un macabro spettacolo che attraeva folle imponenti.
La forca era il modo più diffuso per giustiziare i rei delle classi basse, colpevoli di delitti più o meno comuni. Per loro lo strazio non terminava nemmeno da morti; i cadaveri infatti erano lasciati a penzolare per giorni come monito, in modo che tutti potessero vederli e temere una sorte simile. La decapitazione, invece, morte più rapida e reputata più onorevole, era riservata agli appartenenti alle classi elevate.