L’acqua tofana, detta anche “acqua tufanica”, “acqua perugina”, “acquetta”, “acqua di Napoli”, oppure “Manna di San Nicola”, insapore, incolore ed inodore, veniva venduta all’interno di boccette con le istruzioni per evitare avvelenamenti accidentali. L’acqua tofana fu la svolta per Giulia. Cominciò a vendere la pozione, ufficialmente spacciata per cosmetico femminile prodigioso, e gli affari andarono talmente bene che decise di trascinare con sé in questa avventura “imprenditoriale” pure la figlia (o forse sorella) Girolama Spera. 

A lei, infatti, si rivolgevano le donne del tempo prigioniere di un matrimonio infelice dal quale non avevano la possibilità di liberarsi se non con la morte o la vedovanza. L’attività criminosa, ben presto, destò i sospetti della Santa Inquisizione: una moglie un po’ sbadata non aveva rispettato le sue indicazioni circa la somministrazione del veleno e il marito, che era sopravvissuto e aveva anche scoperto il tentativo di omicidio, denunciò la Giulia Tofana. 

La donna decise di scappare, accettando le lusinghe di un frate, Girolamo o forse Nicodemo. L’ecclesiastico, che divenne poco dopo il suo amante, la condusse a Roma, dove entrambi si costruirono una nuova vita. L’Urbe che si presentò agli occhi di Giulia era la città sfarzosa e decadente di papa Urbano VIII Barberini.Nella città capitolina trovò casa sulla Lungara nel rione Trastevere, a spese dell’amante che trascorreva le ore di preghiera e silenzio nel convento di San Lorenzo. Dopo poco intraprese gli studi e alla sua estrema bellezza aggiunse, quindi, l’arma della cultura. 

Gli anni siciliani passati a vendere veleno sembravano ormai un lontano ricordo, ma ben presto il cammino criminale “imprenditoriale” riprese il sopravvento. 

Un giorno un’amica le confidò quanto infelice e disperata fosse la sua vita matrimoniale a causa delle continue botte e umiliazioni subite da parte del marito. Grazie ad un parente dell’ecclesiastico spregiudicato, speziale del frate amante in un altro convento di Roma, Giulia riuscì a rifornirsi di tutte le materie prime necessarie per la produzione del veleno. Giulia Tofana era ritornata agli affari. Tantissime erano, infatti, le nobildonne romane imbrigliate in nozze combinate e senza amore che si rivolsero a lei per ‘risolvere il problema’. Dopo qualche anno, però, la sorte le girò nuovamente le spalle. 

Ancora una volta la colpa fu di una cliente maldestra (la contessa di Ceri) che, ansiosa di liberarsi del consorte, aveva svuotato l’intera boccetta nella zuppa provocandone la morte immediata e scatenando i sospetti dei parenti del defunto. Ci volle poco per far confessare la moglie assassina e arrivare, così, a Giulia Tofana. La Tofana fu denunciata dal marito per tentato omicidio. Il suo caso divenne molto popolare in città, e si aprì una caccia spietata alla presunta fattucchiera. A nulla valse cercare riparo in una chiesa.