La donna, imprigionata, passò per la camera dei tormenti.
Durante il rigoroso esame, alias tortura, ammise d’aver venduto, la maggior parte nella città di Roma, veleno sufficiente ad uccidere 600 uomini, in un periodo compreso tra il 1633 e il 1651. Fu condannata a morte e giustiziata a Campo de’ Fiori nel 1659, nello stesso luogo che vide ardere il libero pensatore Giordano Bruno, insieme alla figlia Girolama. Le mogli che lei aveva accusato furono catturate e murate vive a Porta Cavalleggeri nel palazzo dell’Inquisizione o torturate e pubblicamente giustiziate. Altre furono strangolate nelle segrete dei palazzi. Altre scamparono alla morte confessando che le boccette acquistate avevano uno scopo puramente cosmetico: nel Seicento, infatti, il collirio a base di bacche di belladonna era usato per conferire risalto e lucentezza agli occhi a causa della sua capacità di dilatare la pupilla, grazie alla presenza di una sostanza detta “atropina”.
A dispetto della Santa Inquisizione, la fama di Giulia Tofana quale paladina delle donne sopravvisse alla sua condanna a morte e la sua acqua continuò ad essere prodotta e utilizzata. Fra il 1666 e il 1676 la marchesa de Brinvilliers se ne servì per avvelenare il padre e due fratelli prima d’essere arrestata e giustiziata.
Infine, secondo alcuni studiosi, nel 1789 (due anni prima di morire) Wolfgang Amadeus Mozart, su una panchina del Prater di Vienna, disse alla moglie Costanze Weber “lo so, devo morire, qualcuno mi ha dato dell’acqua tofana”. Ancora a metà dell’Ottocento il ricordo di Giulia Tofana, e della sua acqua, erano vivi, tanto che Dumas inserì un riferimento nel Conte di Montecristo: ”…noi parlammo signora di cose indifferenti, del Perugino, di Raffaello, delle abitudini, dei costumi, e di quella famosa acqua tofana di cui alcuni, vi era stato detto, conservano ancora il segreto a Perugia”. Paracelso sosteneva che “tutto è veleno e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto”.
La morte tragica di Giulia Tofana rese il suo personaggio leggendario, e alimentò l’archetipo letterario, caro alla sensibilità dell’Ottocento romantico, delle “grandi avvelenatrici” del Rinascimento. Uno stereotipo che accostava l’immagine femminile di Giulia (o quella della più celebre Lucrezia Borgia) all’ammaliatrice che adopera il cibo come subdolo strumento di seduzione e di vendetta. Non a caso, pochi mesi prima della morte, Wolfgang Amadeus Mozart confidò alla moglie il sospetto d’essere stato avvelenato proprio con l’acqua tofana, il che testimonia quanto fosse ancora viva la fama della pozione due secoli dopo la scomparsa della sua inventrice.